Oggi vi racconto di un artista che è stato definito l’occhio dell’Umanità grazie alle sue raccolte fotografiche ricche di pathos ed empatia. Si è infatti spento ieri a Parigi l’artista fotografico Sebastião Salgado. Aveva 81 anni e la sua scomparsa rappresenta una perdita importante per tutti gli appassionati di fotografia e fotografi a livello mondiale. Il suo sguardo, inconfondibile, ha saputo cogliere la bellezza nei luoghi più remoti e la dignità tra le pieghe più oscure del dolore umano. Scopriamolo insieme.
Sebastião Salgado Dall’economia alla fotografia sociale
Sebastião Salgado nasce in Brasile nella città di Aimorés nel 1944. All’inizio si forma come economista, ma ben presto impara che la sua vocazione è un’altra. A farglielo scoprire è la moglie, l’inseparabile compagna di una vita Lélia Wanick, con lei Salgado lascia il Brasile e impara a conoscere la fotografia.
E’ lei che gli regala la sua prima macchina fotografica, strumento che permette all’autore di formarsi con i primi scatti realizzati durante i suoi viaggi. Con il tempo diventa un documentarista ed inizia a raccontare il mondo attraverso le sue immagini in bianco e nero ricche di emozione e impegno civile.

L’opera dell’artista si fonda appunto su indagini sul campo, realizzate durante i suoi lunghi viaggi. Indagini che lo portano a creare delle raccolte fotografiche che sono un potente omaggio a tutto quello che è il lavoro dell’uomo nei confronti dell’altro e dell’ambiente. Salgado riesce a scattare ritraendo il bene e il male facendo in modo che sia lo spettatore della Foto a crearsi una sua critica personale nei confronti di ciò che sta guardando.
Tra i suoi lavori più celebri ricordiamo “Workers” (1993), ovvero un potente omaggio alla fatica dei lavoratori del mondo, e “Exodus” (2000), una struggente narrazione delle migrazioni e degli sfollamenti umani. Tra i miei preferiti ci sono poi “Genesis” (2013), che rappresenta un vero e proprio viaggio visivo nelle parti incontaminate del pianeta, e “Amazônia” (2021). Qui l’autore è riuscito a lasciarci un tributo fotografico e sonoro alla foresta amazzonica e ai suoi popoli indigeni.
Un testimone instancabile
Sebastião Salgado è stato un testimone instancabile di tutta l’umanità e di come l’ambiente è mutato nel tempo insieme alla società. Prima di ammalarsi di leucemia – di cui si è ammalato dopo aver contratto la malaria nel 2010 mentre realizzava il progetto “Genesis” – nel 1988 anche fondato insieme alla moglie Lélia l’Istituto Terra.
L’Istituto Terra è oggi un progetto di riforestazione nell’Mata Atlantica brasiliana che ha permesso di ripopolare pascoli sterili con milioni di alberi. Non solo, dove prima la biodiversità sembrava andare scomparendo, oggi sono tornati a scorrere fiumi e gli animali hanno ritrovato il proprio habitat.

Un progetto che come tutti i suoi lavori fotografici dimostra quanto Salgado abbia sempre creduto nella bellezza e nella giustizia sociale come strumenti utili per connettere a doppio filo l’uomo con l’ambiente.
Nonostante la malattia, Salgado non si è mai fermato: il suo ultimo viaggio l’ho portato a costruire un progetto dedicato al cambiamento climatico. Un progetto per il quale è stato anche denunciato in fase di realizzazione delle immagini che però è diventato la sua ultima mostra: “I ghiacciai morenti“, un grido visivo contro ciò che l’uomo ha fatto al suo mondo, senza rispettarne i confini.
L’eredità morale e visiva di Sebastião Salgado
Sebastião Salgado ha fatto della fotografia uno strumento etico. Ha mostrato la sofferenza cercando la luce anche dove c’era disperazione. Ogni sua opera vuole essere un invito alla compassione, nella speranza che l’immagine possa trasformarsi in un ponte tra chi guarda e chi è invece osservato.

Il fotografo della Terra, la Coscienza Critica dell’Umanità. Ci sarà mai qualcuno in grado di riportare in uno scatto il suo occhio critico? Ai posteri l’ardua sentenza. Quello che è certo è che con la sua morte non si spegne solo una voce dell’arte, ma anche quella di un testimone del nostro tempo.